Quello che mi appassiona

Le esigenze di sintesi confliggono con il tema di questo paragrafo.

Solo con il passare degli anni ho imparato a focalizzare su un più ristretto assortimento di interessi. Nel frattempo ho seguito corsi di tutti i tipi, dalla guida sportiva al come preparare il sushi, dal tiro con il fucile a pompa a come abbinare i formaggi e il vino. Quando poi, da studente universitario, ho impegnato due anni come volontario nella Delegazione Lazio del WWF, ho capito che il giorno è fatto di sole 24 ore. Lato sportivo: trent’anni tra nuoto, scherma, sci, karate, taekwondo, vela, tiro a segno, prima di concludere che era il tennistavolo lo sport che mi garantiva il giusto mix di divertimento, dinamicità, tecnica, tattica e tensione agonistica. Lato musicale: tre anni di flauto traverso mi sono serviti per capire che avrei dovuto studiare la chitarra e il pianoforte. Purtroppo, ormai sono anni che non tocco più una tastiera; forse dovrei provare la batteria, tanto sono ancora in tempo.

Quando ho potuto, ho viaggiato. È scontato – anche se è buona pratica ricordarlo sempre – sottolineare che incontrare culture differenti apre la mente; quanto più diverse, tanto meglio. Ecco perché sono sempre stato convinto che un viaggio in California non valga quello sull’Himalaya e che la crociera tra le spiagge dei Caraibi non valga quella tra i ghiacci delle Svalbard (…è chiaro che mi piace il freddo). Soventemente mi capita di fare cenno ai posti che ho visitato quando parlo con gli studenti, stimolandoli a visitare paesi lontani. A tal fine, tradizionalmente organizzo delle internship in Cambogia per gli studenti del III anno, grazie all’aiuto di un mio ex-tesista che è diventato imprenditore a Phnom Penh. Molto spesso però concludo sconfortato apprendendo che, a ventidue anni, non hanno mai visto Londra o Parigi. Cerco – invano – di mantenere aggiornata una mappa dei miei viaggi.

Meno scontata, invece, è la frase di Levi-Strauss: “la cucina di una società è il linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura”. Viaggiare nei posti più diversi e più distanti dal proprio mondo e confrontarsi con la loro cultura gastronomica è assolutamente stimolante. Certo, noi italiani abbiamo la fortuna di essere nati nel Paese dove – con tutta probabilità – si mangia meglio al mondo, quindi questo confronto con le cucine internazionali conduce spesso a interessanti riflessioni critiche più che ad edonistici e favorevoli apprezzamenti: sarà interessante la tsampa tibetana; sarà interessante il kæstur hákarl islandese; sarà buono l’haggis scozzese; sarà ottima l’anatra alla pechinese ma niente batte una pasta al forno o una cassata.

Se si è attenti alla cultura gastronomica non si può dimenticare ciò che si beve. Ho iniziato da ragazzo con un corso sulla degustazione dei vini, ho proseguito con quello sulle birre e poi ho continuato con quello sui whisky. Un mio affezionato ex tesista mi regalò nel 2006 una ottima bottiglia di rum e fu con quella che mi convinsi del fatto che anche e soprattutto sui distillati la qualità di ciò che si beve ha una importanza determinante non solo dal punto di vista gustativo. L’attitudine accademica è emersa anche qua, per cui ho iniziato a studiare i processi produttivi e le varietà. Dopo una decina di libri sul tema – e molte sperimentazioni in prima persona! – oggi mi diverte molto organizzare e guidare degustazioni di rum e whisky, tradizionalmente in una enoteca di amici a Ponte Milvio.
Il mio profilo Instagram mi svela chiaramente.